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L'alpino thienese caduto in Gulistan

«Davvero ne è valsa la pena?» Il papà di Matteo, morto in combattimento dieci anni fa, si interroga

«Ma veramente ne è valsa la pena?». Franco Miotto, papà di Matteo, il caporal maggiore degli alpini morto in combattimento dieci anni fa nella cop Snow, in Gulistan, riflette. Prende fiato e sintonizza i pensieri quando mette a fuoco come vent’anni di impegno militare e politico dell’Occidente e della Nato in Afghanistan si siano sbriciolati nell’arco di poche settimane. Premette.

«Non possiedo la competenza e le capacità per dare giudizi sulle strategie militari e preferisco non affrontare i temi della politica». Non cerca conflitti. Si limita all’analisi. Il presente ha l’indisponente capacità di acuire il dolore delle ferite del cuore. «La rapidità della caduta di Kabul mi ha spiazzato. Il resto è sotto gli occhi di tutti. Lo stesso Matteo nelle sue lettere dall’Afghanistan raccontava di un popolo fiero, abituato a soffrire e combattere, mai domo, capace di annientare le più grandi armate e ammansire le potenze. Un altro ciclo si è oggi concluso».

Gira e rigira il quesito posto al papà di Matteo, che lo scorso aprile avrebbe compiuto 35 anni, è se la scelta compiuta dagli Stati Uniti e dai suoi alleati di aver lasciato l’Afghanistan abbia reso vano l’impegno di tanti soldati e civili della comunità internazionale che hanno sacrificato la loro vita per evitare che il paese ritornasse ai tempi bui del regime talebano. Tra questi ci sono 54 caduti, Miotto compreso, e oltre 700 feriti e mutilati italiani. «Le risposte - incalza Franco Miotto - si possono dare anche ponendo una domanda, come l’ho sempre posta io ogni anno, nel giorno in cui si ricorda il sacrificio di Matteo. E magari ora a qualcuno fischieranno le orecchie». Era una missione che doveva guadagnare “i cuori e le menti”. 

Domande. «Ho sempre portato avanti il pensiero di Matteo, mi conforta sapere che aveva compiuto una precisa scelta. Anche ora, riavvolgendo il nastro della storia, sono convinto che Matteo avrebbe perseguito i suoi ideali, oggi come ieri. E lo avrebbe rifatto, perchè conosco la sua profonda convinzione in ciò che aveva scelto di compiere».

Riflessioni che Franco Miotto, ha messo nero su bianco. «Pochi giorni fa - scriveva il 10 giugno - dopo 20 anni il tricolore in Afghanistan è stato ammainato. È normale a fronte di ciò fare disamina, trarre consuntivi di ciò che è stato, di quello che questa missione ha prodotto. Le sensazioni che provo, sono un misto di gioia e tristezza. Gioia per chi presto riabbraccerà i propri cari, tristezza per chi non è tornato lasciando profonde ferite a chi è rimasto ad aspettare».

Un altro cerchio s’è chiuso. Così come tutto iniziò, in un piccolo avamposto non più grande di un campo di calcio a 5, un lembo di Italia arroccato nella Valle delle Rose, in Gulistan un puntino nel cuore del deserto afgano chiamato Buji, un cuneo, una spina nel fianco sulla strada dell’oppio in territorio talebano, presidiato da 25 alpini del 7° dove Matteo Miotto, alle 14,50 del 31 dicembre del 2010 incontrò il proprio destino. Un fortino che, quantunque strategico per il presidio dell’area, dopo alcuni mesi dalla morte dell’alpino thienese, venne chiuso e abbandonato, ritenuto “zona operativa troppo a rischio”. 

La memoria corre ancora indietro. Al messaggio inviato da Matteo Miotto alla sua città, Thiene, in occasione della festa delle Forze Armate, 57 giorni prima che la sua vita si spegnesse. Oltre ai rischi di tutti i giorni, scriveva dei bambini, una sua priorità, un chiodo fisso, una sua personale battaglia di umanità da combattere. Nelle sue riflessioni, un passaggio su tutti: «Li guardi, sono scalzi con addosso qualche straccio che a occhio a già vestito più di qualche fratello e sorella. Si portano la mano alla bocca, sappiamo cosa vogliono, hanno fame».

Ma veramente ne è valsa la pena? Un interrogativo che è oggi un macigno. Se lo è chiesto anche l’inglese Daily Mail, con la copertina dedicata ai volti dei 457 militari britannici periti in Afghanistan. “What did the all die for?”. Per cosa sono morti?”

Andrea Mason

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