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Matteo, eroe per una terra senza pace

Il tempo del ricordo non ha mai fine, Il pensiero resta sospeso nell’infinito del silenzio. E del dolore. Nove anni sono trascorsi da quel 31 dicembre del 2010. Quando Matteo Miotto venne colpito a morte da un proiettile sparato da un cecchino mentre difendeva l’avamposto di Buji, nella valle delle rose, in Gulistan, lontano Afghanistan. Caporalmaggiore in forza al 7° Reggimento alpini di Belluno, Matteo aveva 24 anni. Resta la sua medaglia d’argento al valor militare. Rimangono, attuali, le riflessioni di papà Franco parallele alla cerimonia di commemorazione che si svolge ogni anno nell’area dei Caduti al cimitero dei Cappuccini. «È un modo per dar voce al mio ragazzo. Per tornare a ragionare sul valore della missione, come amava definirla, in Afghanistan. Un po’ alla volta metto assieme tanti particolari. Ho l’impressione che non sia facile comprendere perchè l’Italia era ed è laggiù. C’è chi parla della missione con benevolenza come opera umanitaria. Chi con sordo ostracismo guarda la cosa con sospetto e diffidenza come tutte le cose in cui di mezzo c’è lo stato o la politica e conseguente spreco di risorse. C’è chi pensa alla missione come una specie di stage. Una fantasiosa vacanza all’estero, allo scopo di acquisire dal vivo conoscenze e nuove esperienze in campo militare. C’è chi con più malignità punta il dito sui militari, tacciandoli quali volgari mercenari con finalità lucrosa». Ancora oggi Francio Miotto condivide il dolore con il destino. Perchè quel giorno Matteo non era in servizio. Anzi aspettava l’elicottero che avrebbe dovuto trasferirlo alla base di Herat dove l’attendevano gli ultimi giorni di missione. Invece dalla montagna cominciarono a sparare. «Mo figlio è morto guardando in faccia il nemico, con le scarpe da ginnastica slacciate. Matteo era di riposo quando è iniziato il conflitto e non ci ha pensato un secondo a precipitarsi al fianco di un suo compagno che era in difficoltà per aiutarlo, salvando di fatto la vita ad uno di loro. Se penso che ora quella base avanzata in Gulistan è stata chiusa e smantellata perché ritenuta troppo a rischio, non posso non chiedermi se mio figlio sia morto per niente». Non cerca colpevoli per la morte di Matteo. Non polemizza. «Ragiono semplicemente da padre, non entro nelle pieghe della politica. Matteo laggiù è andato da volontario e oggi rifarebbe tutto da capo». Restano i pensieri. «Sono le elucubrazioni di un padre che a volte ancora si chiede: Ma veramente ne è valsa la pena?». • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Andrea Mason

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