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Posina e i profughi, ritorno al passato

Il ballo sancisce la voglia popolare di ricominciare dopo gli orrori e la distruzione della guerra.FILOSOFOUn’altra immagine della rievocazione di sabato sera.  FILOSOFO
Il ballo sancisce la voglia popolare di ricominciare dopo gli orrori e la distruzione della guerra.FILOSOFOUn’altra immagine della rievocazione di sabato sera. FILOSOFO
Il ballo sancisce la voglia popolare di ricominciare dopo gli orrori e la distruzione della guerra.FILOSOFOUn’altra immagine della rievocazione di sabato sera.  FILOSOFO
Il ballo sancisce la voglia popolare di ricominciare dopo gli orrori e la distruzione della guerra.FILOSOFOUn’altra immagine della rievocazione di sabato sera. FILOSOFO

E, alla fine, sono tornati. Poco più della metà dei 3.000 fuggiti nel maggio del ’16 sotto le cannonate degli austroungarici, scesi a valanga dal Majo durante la Strafexpedition. Tre anni passati da profughi nei paesi della pianura vicentina, e anche più lontano. Sono tornati al paese natìo laceri, con la morte nel cuore, più poveri di prima, con speranze di una vita migliore subito spente dalla visione di macerie: quelle delle case e delle contrade, dei campi e delle masiere, delle strade e della chiesa, ma anche degli animi. Con “Fame e calsinassi”, la rievocazione storica del rientro dal profugato, voluta da Comune e “Vivi la Valposina” e proposta sabato sera, in notturna, c’è stata la drammatica messa in scena di chi un giorno tornò nell’avita Posina per riprendere a vivere e a sognare. Oltre 50 figuranti, con la regia di Sante Cavedon, hanno rappresentato questa storia, ricostruita attraverso la memoria degli antenati, tramite le cronache dei sacerdoti, le lettere, i diari. Tra due ali di folla lungo la centrale Via Sareo e ai margini del sagrato, vari personaggi hanno rappresentato la cronaca. C’è chi perfino ha pianto nel sentire il prete esprimere la sua desolazione per le distruzioni della chiesa, «pensata come una zattera di salvezza» per paesani ridotti a fantasmi, senza pace, senza un luogo sicuro dove stare, senza un futuro. Come non emozionarsi nel vedere la vecchia Maria, intenta a pulire col suo nero scialle la soglia della chiesa che aveva tanto intensamente amato, baciare le sue pietre e recitare tutte le preghiere che sapeva? Non ci sarebbe più entrata, per non vedere le rovine del tempio violato, e per immaginarlo invece ancora bello e festoso, sontuoso e profumato. Altro personaggio, el Toni dale Lambre, che spiega al piccolo Tommaso com’era un tempo il paese, tanto desiderato: «Desso un disastro, solo macerie, roba brusà e scheletri de case, vodo de gente, finestre scure che ne varda come oci cativi dale case. Ma questa xè la me Posena, qua mi son nato e qua morirò». In contrappunto, invece, l’arrivo di altri profughi, che al cospetto delle rovine, decidono definitivamente di andarsene. A narrare le sofferenze della lunga diaspora è stato il personaggio di una donna sanguigna, del popolo: la fuga, rocambolesca e tragica; il viaggio, stipati come bestie, fino a Vicenza; le notti passate su un po’ di paglia a Campo Marzo; l’arrivo in paesi sconosciuti, trattati come spie e ammassati nelle stalle e nei granai; la fame; la speranza del ritorno; il grido di dolore e di rabbia nel vedere dappertutto brandelli. Poi, altre testimonianze tristi e dolenti. Infine, la speranza che rinasce con il cinguettio degli uccelli. Sulla strada-palcoscenico, ecco espressa la voglia di restare, di riprendere a vivere. In contrà Zamboni è nata la prima bambina dal rientro. Una ragazza, profuga in Sicilia, divenuta donna, è arrivata col suo sposo di laggiù: la nuova famiglia si integra nella collettività. Tutto riparte. E il ballo finale, aperto anche agli spettatori, sancisce, sulle note di un valzer, la voglia popolare di ricominciare. • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giovanni Matteo Filosofo

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